Variazione in diminuzione della base imponibile IVA da parte del fornitore nelle procedure esecutive anche in caso di cessazione dell’attività del debitore.
Corte di Giustizia causa C- 335/2019
Con sentenza C-335/2019 del 20 ottobre, la Corte di Giustizia è tornata ad occuparsi dei limiti alla rettifica in diminuzione della base imponibile, dal lato del fornitore, nel caso in cui la norma di uno Stato membro (Polonia) subordinava tale variazione alla condizione che, alla data della cessione del bene o della prestazione di servizi nonché al giorno precedente la data di presentazione della rettifica della dichiarazione fiscale volta a beneficiare di tale riduzione, il debitore fosse registrato quale soggetto passivo dell’IVA e non fosse sottoposto a procedura d’insolvenza o di liquidazione e che, al giorno precedente la data di presentazione della rettifica della dichiarazione fiscale, il creditore fosse anch’esso ancora registrato quale soggetto passivo dell’IVA.
In estrema sintesi, la Corte ha riconosciuto in capo al fornitore il diritto di emissione della nota di variazione in diminuzione della base imponibile anche nelle ipotesi di cessazione dell’attività da parte del committente e, a prescindere dall’ipotesi che, successivamente all’effettuazione dell’operazione, fosse venuto meno lo status di soggetto passivo del fornitore e/o del cessionario, in quanto “il diritto di rettificare la base imponibile e l’obbligo di rettificare l’importo dell’IVA detraibile non dipendono dal mantenimento dello status di soggetto passivo tanto del creditore quanto del debitore”.
Si premette, ai fini espositivi, che nella legislazione italiana le variazioni dell’IVA dovuta all’Erario sono regolate dall’art. 26 del dpr n. 633/1972.
In particolare, il secondo comma dispone che è possibile operare una variazione in diminuzione quando un’operazione, per la quale sia stata emessa fattura e sia stata registrata secondo gli artt. 23 e 24 del DPR n. 633/72, venga meno o se ne riduca l’ammontare imponibile a causa della dichiarazione di nullità, annullamento, revoca, risoluzione, rescissione e simili, oppure in conseguenza dell’applicazione di abbuoni o sconti previsti contrattualmente, oppure per mancato pagamento in tutto o in parte a causa di procedure concorsuali o di procedure esecutive rimaste infruttuose o a seguito di un accordo di ristrutturazione dei debiti omologato ai sensi dell’art. 182-bis legge fallimentare, ovvero di un piano attestato ai sensi dell’art. 67, terzo comma, lettera d), l.fall., pubblicato nel registro delle imprese o in conseguenza dell’applicazione di abbuoni o sconti previsti contrattualmente. Il terzo comma prevede, tra l’altro, che gli eventi sopraindicati possano verificarsi in dipendenza di un sopravvenuto accordo fra le parti. In tali casi, la variazione deve essere registrata entro un anno dall’effettuazione dell’operazione imponibile.
Il caso portato all’attenzione dei Giudici europei ha riguardato una s.r.l. stabilita in Polonia e ivi soggetto passivo dell’IVA, svolgente attività di consulenza tributaria nei confronti di contribuenti soggetti IVA ad essa non collegati, in relazione alla quale venivano emesse regolari fatture per le prestazioni di servizi soggette ad imposta con aliquota ordinaria.
All’atto dell’esecuzione della prestazione di servizi il committente era registrato come soggetto passivo IVA e non era sottoposto ad alcuna procedura di insolvenza o di liquidazione; tuttavia, successivamente a tale data, il cliente, prima di aver saldato la fattura in oggetto, veniva posto in liquidazione.
Alla domanda rivolta al Ministro delle Finanze polacco da parte del fornitore circa la possibilità di operare la nota di variazione nonostante la messa in liquidazione del proprio cliente successivamente all’esecuzione della prestazione di servizi in questione, seguiva un diniego, argomentato sulla base del disposto dell’articolo 90 della Direttiva 2006/112, il quale conferisce ai soggetti passivi il diritto di ridurre la base imponibile dell’IVA solo alle condizioni stabilite da ciascuno Stato membro, condizioni che la Repubblica di Polonia aveva stabilito all’articolo 89 bis della legge sull’IVA parametrandole alla cessione di beni o alla prestazione di servizi solo se effettuate a favore di un soggetto passivo, registrato come tale e, altresì, non sottoposto a procedura di insolvenza o di liquidazione all’atto della variazione della base imponibile.
La soluzione offerta dalla Corte nella sentenza in commento segue il prezioso ed esauriente ragionamento seguito dall’Avvocato generale nelle sue Conclusioni, nelle quali (paragrafo 25) si sostiene che “… in caso di inadempimento del destinatario, l’impresa che eroga la prestazione non è neanche sostanzialmente debitrice dell’IVA”, per cui il fatto generatore dell’IVA non viene in evidenza nella misura in cui “l’imprenditore non ha operato, in definitiva, alcuna cessione o altra prestazione a titolo oneroso”.
Ed ancora (paragrafo 45), si osserva che “… il fatto che il destinatario sia sottoposto a procedura di insolvenza rappresenta piuttosto un elemento cha avvalora la definitività del suo inadempimento” (conclusione che ritroviamo al punto 24 della sentenza A–PACK CZ causa C‑127/18), e lo stesso vale nel caso in cui il destinatario sia sottoposto a procedura di liquidazione. Di talchè l’Avvocato generale aggiunge che “Una limitazione della rettifica della base imponibile nei casi in cui sia pressoché certo che il corrispettivo pattuito non verrà versato definitivamente non è quindi né possibile né proporzionata”, posto il principio dell’art 90 della Direttiva secondo il quale la base imponibile è costituita esclusivamente dal corrispettivo realmente percepito.
L’Avvocato generale conclude infine con una “esortazione” ai legislatori europei “suggerendo”, si ritiene correttamente, che la soluzione all’annosa questione (v. paragrafo 62 Conclusioni) “… consistente nel mancato pagamento del corrispettivo tra due soggetti passivi, non va dunque cercata in una limitazione della rettifica del debito d’imposta del soggetto passivo erogatore della prestazione, bensì in una più rapida rettifica della detrazione in assenza dell’onere dell’imposta a monte presso il destinatario”.
La Corte UE, seguendo la ricostruzione operata dall’Avvocato generale nelle sue Conclusioni, unitamente ai propri precedenti in tema, ha concluso ritenendo che fossero stati violati il principio di neutralità dell’imposta per via dell’eccessiva limitazione in capo al fornitore/creditore e i “limiti” della deroga concessa agli Stati membri dal paragrafo 2 dell’art. 90 della Direttiva IVA circa la limitazione alla rettifica della base imponibile, non essendo consentito dalla norma europea un potere che di fatto privi il fornitore, già inciso dall’iva in quanto collettore d’imposta per lo Stato, della possibilità di rettifica e detrazione dell’imposta non incamerata.
Preme riferire, per inciso, che la sentenza qui in commento segue di poco l’intervento della Corte UE su un’ipotesi simile (A–PACK CZ causa C‑127/18), nella quale il giudice del rinvio chiedeva se l’articolo 90 della direttiva IVA fosse ostativo ad una norma interna che limitava ad un soggetto passivo la rettifica della base imponibile IVA in caso di mancato pagamento totale o parziale, da parte del suo debitore non più soggetto passivo dell’imposta.
Nel precedente A–PACK CZ C‑127/18 i giudici hanno dichiarato contraria al dettato dell’art. 90 della Direttiva IVA la norma interna (Repubblica Ceca) che limitava la rettifica, e ciò sulla base di tre considerazioni:
La prima che “…escludere qualsiasi riduzione della base imponibile dell’IVA sarebbe contrario al principio di neutralità dell’IVA” (punto 22),
La seconda che “…un requisito quale quello stabilito dalla normativa nazionale di cui trattasi nel procedimento principale, che subordina la rettifica della base imponibile ai fini dell’IVA alla circostanza che il debitore non abbia cessato di essere un soggetto passivo ai fini dell’IVA, non può essere giustificato dalla necessità di tener conto dell’incertezza in merito al carattere definitivo del non pagamento di cui trattasi” (punto 23)
La terza, più ovvia in quanto attiene ad un ragionamento che potremmo definire empirico e non per questo meno dirimente, che “… come peraltro rilevato, in sostanza, dalla Commissione nelle sue osservazioni scritte, la circostanza che il debitore abbia cessato di essere un soggetto passivo, nell’ambito di una procedura di insolvenza, costituisce piuttosto, al contrario, un elemento atto a corroborare il carattere definitivo del non pagamento” (punto 24).
Ritornando alla sentenza in commento, che ha analizzato, tra i vari argomenti, il rapporto tra variazione IVA del prestatore e rettifica della detrazione per il committente, si segnala quanto correttamente evidenziato dalla norma di comportamento n. 192 dell’AIDC del 1.2.2015 (momento di emissione delle note di variazione IVA nelle procedure concorsuali), secondo la quale “le disposizioni della Direttiva IVA (artt. 90 e 185) delineano il regime delle note di variazione in senso diametralmente opposto al legislatore nazionale, prevedendo l’obbligo (anziché la facoltà – comma 2 art. 26 dpr 633/72), per il cedente/prestatore, di ridurre la base imponibile e la facoltà (anziché l’obbligo) in capo al cessionario/committente di rettificare la detrazione”, ciò al fine di calibrare le opposte “esigenze” dei soggetti iva ad una corretta tassazione, nell’esigenza primaria di lasciare indenne il prestatore da eventuali fenomeni distorsivi del principio di neutralità dell’imposta.
La Norma AIDC osserva poi, correttamente, che l’emissione della nota di credito dopo la chiusura della procedura concorsuale genera uno squilibrio del principio di neutralità, considerato che l’Amministrazione (come da questa stessa riconosciuto nella Circ. 77/2000) non può più insinuarsi come creditore al passivo fallimentare, essendo la procedura conclusa. Si determina, così, la rinuncia al recupero dell’imposta da parte dell’Erario che comporta un doppio riconoscimento del credito IVA, a danno degli interessi erariali: la prima volta a favore del cliente con l’esercizio della detrazione nel momento di registrazione della fattura, e la seconda volta all’atto del recupero dell’imposta da parte del fornitore non soddisfatto dal riparto.
L’intervento della Corte nella sentenza in commento segue altri precedenti dei medesimi giudici teso ad individuare una simmetria tra il diritto del fornitore a recuperare l’IVA esposta in fattura e versata all’erario e non ricevuta in tutto o in parte dal proprio committente, con l’obbligo di quest’ultimo di rettificare in aumento la propria base imponibile a fronte di un IVA detratta ma non versata al primo, al fine ultimo di sterilizzare le basi imponibili dei due soggetti iva e ricondurre le due operazioni al principio di neutralità dell’imposta quale cardine del sistema comune IVA.
In sede unionale la norma di riferimento ai fini della rettifica della base imponibile è l’art. 90 della Direttiva IVA che consente di operare le variazioni sul fatto generatore dell’operazione, “delegando” altresì i singoli Stati membri circa l’individuazione delle condizioni per l’effettiva riduzione della base imponibile al fine assicurare quella coerenza tra fatto generatore e corretta applicazione dell’imposta, ovvero tra la base imponibile e il corrispettivo realmente ricevuto con il conseguente limite per lo Stato di non poter riscuotere un importo a titolo di IVA superiore a quello percepito dal fornitore/cedente.
Operando secondo i dettami dell’art. 90 indicato, ad una variazione della base imponibile (e correlativa imposta) in capo al cedente/prestatore con relativa sua minore imposta a debito, corrisponde una maggiore imposta da versare (minore imposta a credito) in capo il committente, per effetto della rettifica delle detrazioni da operare (in diminuzione) in base al disposto dell’art. 185 della direttiva IVA.
Dal che consegue la necessità che il committente operi la rettifica in diminuzione della propria detrazione pena l’acquisizione di un indebito vantaggio da parte di costui.
Dal lato del committente, la Direttiva IVA lascia agli Stati Membri l’individuazione delle modalità operative, prevedendo che, in generale, quando vi sia un mutamento degli elementi presi in considerazione per determinare l’importo delle detrazioni ed in particolare quando vi è l’annullamento dell’acquisto o qualora si sono ottenute delle riduzioni del prezzo, è necessario procedere con le rettifiche delle detrazioni.
Il nucleo dell’intervento della Corte UE, supportata dal ragionamento dell’Avvocato generale, attiene l’analisi dei limiti e del rapporto tra il diritto alla variazione in diminuzione della base imponibile dal lato fornitore e l’obbligo della rettifica della detrazione in capo al committente.
Nella sentenza 335/2019 si evidenzia il rapporto tra le variazioni in diminuzione ed in aumento in capo rispettivamente al fornitore ed al committente, da cui emerge una loro indipendenza “in sede europea”, onde “consentire” al fornitore la variazione della base imponibile e l’eliminazione del rischio di rimanere inciso da un’imposta versata ma mai riscossa, a prescindere dalla mancata rettifica della detrazione del committente.
In sede italiana, viceversa, emerge una chiara interdipendenza tra le variazioni, ritenute dal fisco tra loro speculari con il conseguente “divieto” del fornitore di operare la variazione in diminuzione qualora il committente/debitore risulti cancellato dal registro delle imprese e quindi privo dello status di soggetto passivo.
L’intento dei Giudici europei è quello di garantire un certa “coerenza”, pur nelle autonomia delle situazioni, tra la variazione operata dal fornitore e la rettifica della detrazione del committente, per tutelare i principi di neutralità e proporzionalità dell’imposta, più volte ribaditi dalla Corte UE (v. ex multis CGUE sentenze Naturally Yours Cosmetics C-230/87, Glaw C-38/93, Argos Distributors C-288/94, Elida Gibbs C-317/94 e Goldsmiths C‑330/95 e CGUE 588/10 par. 27, Kraft Foods Polska, C‑588/10, punti 26 e 27, Almos Agrárkülkereskedelmi C‑337/13, punto 22 e giurisprudenza ivi citata e Boehringer Ingelheim Pharma C-462/16 punto 32, Tratave C-672/17 punto 29), secondo la quale “la base imponibile di una operazione è costituita per le forniture di beni da tutto ciò che costituisce il corrispettivo versato o da versare al fornitore da parte dell’acquirente, dal destinatario o di un terzo”.
L’esigenza di neutralità dell’imposta ha portato la Corte UE a ribadire il rapporto tra il diritto alla rettifica in diminuzione dell’imposta in capo al fornitore di cui all’art. 90 della Direttiva IVA e la rettifica delle deduzioni per il debitore inadempiente, rilevando che (sentenza T‐2 causa C‐396/16, punto 35) “Mentre l’articolo 90 di tale direttiva disciplina il diritto di un fornitore di ridurre la base imponibile ogniqualvolta, successivamente alla conclusione di un’operazione, non riceve il corrispettivo previsto o riceve solo una parte dello stesso, l’articolo 185 di detta direttiva disciplina la rettifica delle deduzioni inizialmente operate dall’altra parte della stessa operazione. Pertanto, tali due articoli rappresentano le due facce di una stessa operazione economica e dovrebbero essere interpretate in modo coerente”.
Analoghe conclusioni si evincono al punto 22 della sentenza Almos Agrárkülkereskedelmi C‐337/13 nella quale si legge che “… l’art. 90 … obbliga gli Stati membri a ridurre la base imponibile e, quindi, l’importo dell’IVA dovuta dal soggetto passivo ogni volta che, successivamente alla conclusione di un’operazione, una parte o la totalità del corrispettivo non viene percepita dal soggetto passivo. Tale disposizione costituisce l’espressione di un principio fondamentale della Direttiva IVA, secondo il quale la base imponibile è costituita dal corrispettivo realmente ricevuto e il cui corollario consiste nel fatto che l’amministrazione tributaria non può riscuotere a titolo di IVA un importo superiore a quello percepito dal soggetto passivo”.
Ciò detto, la medesima Corte UE riconosce (sentenza Di Maura C-246/16 punto 19) la possibilità per gli Stati, ai sensi del paragrafo 2 dell’art. 90, di scegliere se derogare o meno al disposto del paragrafo 1 in caso di mancato pagamento, totale o parziale (come avvenuto in Italia con la scelta di deroga parziale per le sole procedure concorsuali, esecutive, per gli accordi di ristrutturazione dei debiti e per i piani di risanamento), con la conseguenza che i soggetti d’imposta, fuori dalle ipotesi “previste” dal legislatore interno, non possono pertanto far valere, sulla base dell’articolo 90 paragrafo 1, un diritto alla riduzione della loro base imponibile IVA fuori dei casi espressamente previsti.
Ciononostante, la Corte UE si è espressa nel senso di limitare in capo agli Stati membri interpretazioni eccessivamente restrittive della “facoltà” del paragrafo 2 dell’art. 90 (v. al riguardo le sentenze Commissione/Germania C‐287/00 punto 47, Horizon College C‐434/05 punto 16 e PFC Clinic C‐91/12 punto 23), a motivo di una evidente contrarietà al principio di neutralità dell’IVA, affermando che (sentenza Di Maura C-246/16 punti 20-23) “…contrariamente a quanto sostengono i governi italiano e del Regno Unito, tale motivazione, … non può valere a rimettere in discussione la giurisprudenza citata ai punti 17 e 18 della presente sentenza, nel senso che gli Stati membri sarebbero legittimati a escludere del tutto la riduzione della base imponibile dell’IVA. … Ebbene, dallo stesso testo dell’articolo 11, parte C, paragrafo 1, secondo comma, della sesta direttiva si evince che gli Stati membri, se è vero che possono derogare alla rettifica della base imponibile prevista al primo comma, non hanno tuttavia ricevuto dal legislatore dell’Unione la facoltà di escludere del tutto tale rettifica. Tale conclusione è confermata da un’interpretazione teleologica dell’articolo 11, parte C, paragrafo 1, secondo comma, della sesta direttiva. Sebbene, infatti, sia opportuno che gli Stati membri abbiano la possibilità di far fronte all’incertezza intrinseca al carattere definitivo del non pagamento di una fattura, ricordata al punto 16 della presente sentenza, una simile facoltà di deroga non può estendersi al di là di tale incertezza, e in particolare alla questione se una riduzione della base imponibile possa non essere effettuata in caso di non pagamento. Del resto, ammettere la possibilità per gli Stati membri di escludere qualsiasi riduzione della base imponibile dell’IVA sarebbe contrario al principio di neutralità dell’IVA, da cui deriva in particolare che, nella sua qualità di collettore d’imposta per conto dello Stato, l’imprenditore dev’essere sgravato interamente dall’onere dell’imposta dovuta o pagata nell’ambito delle sue attività economiche a loro volta soggette a IVA” (v. in tal senso anche sentenze Securenta C‐437/06 punto 25 e Malburg C‐204/13 punto 41).
Ulteriore conferma di ciò la si ritrova nella sentenza T‐2 C‐396/16 (punto 40) dove si legge che “… Ove per contro tale giudice dovesse constatare che le obbligazioni del debitore sono state ridotte in modo che la parte corrispondente dei crediti dei fornitori di quest’ultimo è divenuta definitivamente irrecuperabile, le deroghe di cui all’articolo 185, paragrafo 2, della direttiva IVA, in caso di operazioni totalmente o parzialmente non pagate, non possono trovare applicazione”.
A corollario di quanto riportato, la medesima Corte UE, in ossequio ai principi di neutralità e proporzionalità dell’imposta, ha ripetutamente riconosciuto l’esistenza di un limite alle formalità che gli Stati possono pretendere dal creditore insoddisfatto, finalizzate alla variazione in diminuzione della sua base imponibile e tese alla dimostrazione del mancato soddisfacimento del credito vantato, con la correlata possibilità, offerta al creditore, di fornire la prova per mezzo di strumenti alternativi, nelle ipotesi in cui le formalità imposte dallo Stato membro siano impossibili o eccessivamente difficili da soddisfare (sentenza Kraft Foods Polska SA C-588/10 punto 40).
Al riguardo è stato affermato (sentenza Almos C-337/2013 punto 40) che “Anche se gli Stati membri possono prevedere che l’esercizio del diritto alla riduzione di tale base imponibile sia subordinato al compimento di talune formalità che consentono di dimostrare in particolare che, successivamente alla conclusione dell’operazione, una parte o la totalità del corrispettivo non è stata definitivamente percepita dal soggetto passivo e che quest’ultimo poteva invocare una delle situazioni previste all’articolo 90, paragrafo 1, della direttiva IVA, le misure così adottate non devono eccedere quanto necessario a tale giustificazione cosa che spetta al giudice nazionale verificare”.
Dall’interpretazione dell’art. 90 da parte della corte UE si evince che, in caso di esercizio della deroga ex paragrafo 2 art. 90, al singolo Stato membro è “concesso”, al fine di tutelare la propria posizione da potenziali accordi fraudolenti tra i soggetti passivi ai danni dell’Erario, di “qualificare” gli elementi del fatto dal quale evincere con ragionevole certezza che, successivamente alla conclusione dell’operazione (cessione/fornitura), una parte o la totalità del corrispettivo dovuto al fornitore è venuta meno, con la conseguenza, però, di dover “consentire” sempre al soggetto passivo di dimostrare l’insolvenza del proprio debitore.
Così ad esempio, come esempio di condizione meramente “formale”, nel precedente Kraft Foods Polska C-588/10 (punti 24, 25 e 32), la Corte UE ha riconosciuto compatibile al dettato dell’art. 90 un requisito che subordina la riduzione della base imponibile, quale risulta da una fattura iniziale, al possesso, da parte del cedente/prestatore, di una conferma di ricevimento di una fattura rettificata comunicata al debitore destinatario dei beni o dei servizi (id est. Tratave C-672/17 punto 35).
La possibilità di rettifica della base imponibile è stata, altresì, riconosciuta dalla Corte UE sia in quelle ipotesi (CGUE causa LVK C‑643/11, punti 35-37) in cui l’imposta sia stata indebitamente fatturata, consentendo all’emittente in buona fede di rettificare il documento contabile (v. in tal senso sentenze C-342/87 Genius Holding, punto 18, Schmeink & Cofreth e Strobel C‑454/98, punti 56‑61 e 63, nonché Karageorgou C‑78/02 punto 50), sia nei casi di fatture erronee, qualora, soddisfatte tutte le condizioni materiali per poter beneficiare del diritto alla detrazione dell’IVA e prima dell’adozione della decisione da parte dell’autorità interessata, il soggetto passivo abbia trasmesso a quest’ultima una fattura rettificata, cosicché il beneficio di tale diritto non possa essergli negato, in linea di principio, per il fatto che la fattura iniziale conteneva un errore (punto 34 della sentenza Petroma Transports SA C-271/12; v. anche Pannon Gép Centrum C‑368/09, punti da 43 a 45).
2. Le note di variazione IVA in caso di procedure esecutive concorsuali.
Problematica di rilievo, che mostra la netta divergenza interpretativa tra il Giudice europeo (v. ad es. C-246/16, C-396/16, C-127/2018, C-146/2019) e la prassi italiana (v. Circ. 77/2000, Ris. 155/2001, Ris. 189/2002, Ris. 195/2008, Ris. 120/2009, Circ. 8/2017, Interpello 33/2020), attiene alle note di variazione in diminuzione nelle procedure concorsuali ed in particolare all’esatta individuazione del momento in cui poter effettuare la rettifica in capo al fornitore/creditore insoddisfatto.
Ai fini ricognitivi, si riferisce che l’applicazione del comma 2 dell’art. 26 dpr 633/72 attiene alle seguenti ipotesi di procedure concorsuali:
Fallimento
Liquidazione coatta amministrativa
Concordato fallimentare
Concordato preventivo
Accordo di ristrutturazione dei debiti
Piano di risanamento dell’esposizione debitoria dell’impresa
Restano fuori da questo elenco le procedura di Amministrazione controllata e Amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, la cui assenza è giustificata rispettivamente (Circ. 77/2000) dalla “esclusione dell’insolvenza” del debitore che vuole continuare l’attività e dal tentativo di “risanamento della società”, vulnus che potrebbe portare il giudice italiano a sollevare la questione innanzi alla Corte UE a motivo della diretta ed immediata applicabilità dell’art. 90 paragrafo 1 della Direttiva (v. sentenza Almos C‑337/13 punto 34).
In senso opposto all’interpretazione sostanzialistica sostenuta dalla Corte UE è la posizione dell’Agenzia delle Entrate che, sin dalla Circolare 77/2000, àncora il diritto di variazione esclusivamente alla ripartizione dell’attivo “… allorquando il soddisfacimento del creditore attraverso l’esecuzione collettiva sul patrimonio dell’imprenditore viene meno, in tutto o in parte, per insussistenza di somme disponibili”, il che presuppone “la necessaria partecipazione del creditore al concorso” e l’attesa del compimento della procedura.
Collegato alla variazione in diminuzione, la medesima Agenzia (Ris. 115/2001) ha osservato che l’IVA risultante dalla rettifica del creditore insoddisfatto nei confronti del fallimento rimane a carico dell’Erario, specificando che “gli adempimenti previsti dalla norma in commento non determinano l’inclusione del relativo credito erariale nel riparto finale, ormai definitivo, ma consentono di evidenziare il credito eventualmente esigibile nei confronti del fallito tornato in bonis” da parte dell’Agenzia.
Quanto alle “tempistiche” finalizzate alla variazione IVA, l’Agenzia individua per ogni procedura un momento preciso prima del quale ritiene illegittima la rettifica, confermando la propria posizione restrittiva anche negli interventi successivi (Ris. 195/2008, Ris. 120/2009, Circ. 8/2017, Interpello 33/2020) che possono così schematizzarsi:
FallimentoIl mancato pagamento si verifica solo a seguito della ripartizione finale dell’attivo, oppure, in assenza, con la scadenza del termine per il reclamo al decreto di chiusura del fallimento (Ris. 120/2009). Liquidazione coatta amministrativaIl mancato pagamento si realizza decorsi i termini per l’approvazione del piano di ripartoConcordato fallimentare Il mancato pagamento coincide con il passaggio in giudicato della sentenza di omologazione del concordato (Circ. 77/2000)Concordato preventivoIl mancato pagamento coincide con la definitività dell’omologazione e quando il debitore concordatario adempie gli obblighi assunti in sede di concordato. Laddove, in caso di mancato adempimento o in conseguenza di comportamenti dolosi, venga dichiarato il fallimento del debitore, la rettifica in diminuzione può essere eseguita solo dopo che il piano di riparto dell’attivo sia divenuto definitivo ovvero, in assenza di un piano, dopo la scadenza del termine per il reclamo avverso il decreto di chiusura del fallimento (Circ. 77/2000 e Circ. 8/2017)
Del tutto differente l’interpretazione fornita dalla Corte UE la quale, avendo come stella polare il principio di neutralità dell’imposta giunge “più agevolmente” a ritenere superflui e/o illegittimi determinati requisiti imposti dai singoli legislatori europei, “anticipando” di molto il momento a partire dal quale il creditore è legittimato ad operare la variazione, a prescindere da quella che sarà operata da parte del cessionario, ancorando il diritto del fornitore alla dimostrazione (approccio sostanzialistico) da parte di quest’ultimo dei motivi a sostegno della inesigibilità del credito vantato.
Merita un cenno un recente intervento della Corte UE (sentenza C-146/19, seguita dalle due ordinanze C-756/19 e C-292/19) nel quale è stato riconosciuto il diritto alla variazione IVA in capo al fornitore anche in assenza di insinuazione al passivo, evidenziando che l’art. 90 della direttiva IVA “osta ad una normativa di uno Stato membro in virtù della quale ad un soggetto passivo viene rifiutato il diritto alla riduzione dell’IVA assolta e relativa ad un credito non recuperabile qualora egli abbia omesso di insinuare tale credito nella procedura fallimentare instaurata nei confronti del suo debitore, quand’anche detto soggetto dimostri che, se avesse insinuato il credito in questione, questo non sarebbe stato riscosso”.
La Corte sposta la “certezza” della irrecuperabilità del credito anticipandola rispetto alle condizioni poste dal legislatore interno, nella misura in cui queste siano estremamente restrittive e perciò fuoriescano dal perimetro della deroga di cui all’art. 90 della Direttiva, consentendo al creditore di “dimostrare” l’inesigibilità anche con altri mezzi, come ad esempio chiarito dalla Corte UE al punto 27 nella causa Enzo Di Maura C-246/2016 sostenendo che la certezza della irrecuperabilità del credito può essere altresì raggiunta “… accordando parimenti la riduzione allorché il soggetto passivo segnala l’esistenza di una probabilità ragionevole che il debito non sia saldato, anche a rischio che la base imponibile sia rivalutata al rialzo nell’ipotesi in cui il pagamento avvenga comunque”.
La Corte, nel ribadire la libertà di ogni Stato membro nel delineare le condizioni procedurali per l’emissione delle note di variazione, stante l’assenza di vincoli in questo senso previsti dall’art. 90, al punto n. 39 della sentenza C-146/2019, rileva che, al fine della prevenzione delle evasioni fiscali, “… anche se una condizione quale quella in discussione nel procedimento principale è idonea ad impedire un danno per lo Stato qualora l’inerzia del soggetto passivo che non ha insinuato il proprio credito in una procedura fallimentare risulti da comportamenti configuranti una collusione tra tale soggetto passivo e il suo debitore, occorre rilevare che l’applicazione di tale condizione ha per effetto un rifiuto sistematico del diritto a riduzione della base imponibile in caso di mancata insinuazione, il che si traduce in una presunzione generale di frode che va al di là di quanto è necessario per raggiungere l’obiettivo consistente nel prevenire le evasioni fiscali (v., per analogia, sentenza Eqiom e Enka C‑6/16 punto 31)”.
Il ragionamento della Corte UE stimola la riflessione secondo la quale, se il diritto di variazione, diviene certo oltre che al termine della chiusura delle procedure concorsuali anche nel caso di mancata insinuazione al passivo perché in questo caso è ritenuto “estinto”, si potrebbe affermare che l’estinzione del credito per mancata insinuazione al passivo, producendo la certezza della sua inesigibilità, “garantendo” al creditore il diritto (rectius comportando l’obbligo) di operare la variazione in diminuzione, ricondurrebbe la “condizione” richiesta dalla norma italiana (art. 26 comma 2) non già nelle ipotesi derogatorie del paragrafo 2 dell’art. 90 della Direttiva, bensì nell’alveo del più “rassicurante” paragrafo 1.
In altre parole, se la mancata insinuazione al passivo, secondo il ragionamento della Corte UE, certifica, previa dimostrazione (probabilità ragionevole che il debito non sia saldato), l’assoluta impossibilità del creditore di soddisfare il proprio credito IVA, la conseguenza è quella di dover operare obbligatoriamente la variazione ex paragrafo 1 art. 90, senza verificare l’eventuale rispetto delle ipotesi derogatorie del comma 2 dell’art. 26 DPR 633/72 con il precetto del paragrafo 2 dell’art. 90 della Direttiva.
Volendo schematizzare la posizione della Corte UE si osserva:
CGUE Enzo Di Maura C-246/16Uno Stato membro non può subordinare la riduzione della base imponibile dell’IVA all’infruttuosità di una procedura concorsuale qualora una tale procedura possa durare più di dieci anni. (punti da 20 a 29).CGUE Enzo Di Maura C-246/16Gli Stati membri, se è vero che possono derogare alla rettifica della base imponibile prevista al primo comma, non hanno tuttavia ricevuto dal legislatore dell’Unione la facoltà di escludere del tutto tale rettifica (punto 21).CGUE A–PACK CZ C-127/18Un requisito quale quello stabilito dalla normativa nazionale di cui trattasi nel procedimento principale, che subordina la rettifica della base imponibile ai fini dell’IVA alla circostanza che il debitore non abbia cessato di essere un soggetto passivo ai fini dell’IVA, non può essere giustificato dalla necessità di tener conto dell’incertezza in merito al carattere definitivo del non pagamento di cui trattasi (punto 23)CGUE A–PACK CZ C-127/18La circostanza che il debitore abbia cessato di essere un soggetto passivo, nell’ambito di una procedura di insolvenza, costituisce piuttosto, al contrario, un elemento atto a corroborare il carattere definitivo del non pagamento (punto 24).CGUE SCT d.d. C-146/19Uno Stato membro deve permettere la riduzione della base imponibile dell’IVA qualora il soggetto passivo possa dimostrare che il credito da egli vantato nei confronti del suo debitore presenta un carattere definitivamente irrecuperabile (punto 27).CGUE SCT d.d. C-146/19Nell’ipotesi di mancata insinuazione al passivo fallimentare da parte del creditore come condizione per procedere alla variazione in diminuzione, “l’applicazione di tale condizione ha per effetto un rifiuto sistematico del diritto a riduzione della base imponibile in caso di mancata insinuazione, il che si traduce in una presunzione generale di frode che va al di là di quanto è necessario per raggiungere l’obiettivo consistente nel prevenire le evasioni fiscali” (punto 39).CGUE SCT d.d. C-146/19Qualora il soggetto passivo dimostri che, anche se avesse insinuato il proprio credito, quest’ultimo non sarebbe stato riscosso, il fatto di escludere una riduzione della base imponibile e di far pesare su detto soggetto l’onere di un importo a titolo di IVA che egli non ha percepito nell’ambito delle sue attività economiche eccede i limiti strettamente necessari per raggiungere l’obiettivo consistente nell’eliminare il rischio di perdita di entrate fiscali … Infatti, in questa ipotesi, nessun pregiudizio supplementare per lo Stato avrebbe potuto essere evitato mediante l’insinuazione del credito in questione (punto 43).CGUE Ord. 24.10.2019 Porr Építési C-292/19Uno Stato membro deve consentire la riduzione della base imponibile dell’imposta sul valore aggiunto qualora il soggetto passivo possa dimostrare che il credito che esso vanta nei confronti del debitore abbia carattere definitivamente irrecuperabile, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare, poiché tale situazione non costituisce un caso di non pagamento che può rientrare nella deroga all’obbligo di riduzione della base imponibile dell’imposta sul valore aggiunto, di cui al paragrafo 2 del medesimo articolo.CGUE T-2 C-396/16Se è rilevante che gli Stati membri possano contrastare tale incertezza, una tale facoltà di deroga non può estendersi oltre tale incertezza, e in particolare alla questione se una riduzione della base imponibile non può essere effettuata in caso di mancato pagamento (punto 40).CGUE E. sp. Zo.o. C-335/19La garanzia di una riduzione simmetrica della base imponibile dell’IVA esigibile e dell’importo dell’IVA detraibile non dipende dal fatto che entrambe le parti siano soggetti passivi dell’IVA (punto 39)CGUE E. sp. Zo.o. C-335/19L’incertezza connessa alla definitività del mancato pagamento potrebbe essere parimenti tenuta in considerazione accordando la riduzione della base imponibile dell’IVA allorché il creditore segnali, prima dell’esito della procedura di insolvenza o di liquidazione, l’esistenza di una probabilità ragionevole che il credito non sarà saldato, anche a rischio che tale base imponibile sia rivalutata al rialzo nell’ipotesi in cui il pagamento avvenga comunque (punto 48)CGUE E. sp. Zo.o. C-335/19Spetta alle autorità nazionali stabilire, nel rispetto del principio di proporzionalità e sotto il controllo del giudice, quali siano le prove della probabile prolungata durata del mancato pagamento che il creditore deve fornire in funzione delle specificità della normativa nazionale applicabile (punto 48)
3. Le note di variazione IVA in caso di procedure esecutive individuali.
Medesime asimmetrie si registrano anche in relazione alle procedure esecutive individuali, in relazione alle quali la prassi interna richiede, ai fini della variazione IVA, l’infruttuosità della procedura ossia che, malgrado l’attuazione delle azioni esecutive, il creditore sia rimasto insoddisfatto.
La posizione della prassi interna può così sintetizzarsi:
Circ. 77/2000In caso di mancato pagamento a causa di procedure esecutive rimaste infruttuose il diritto alla variazione si collega al mancato soddisfacimento del credito attraverso la distribuzione delle somme ricavate dalla vendita dei beni dell’esecutato ovvero quando sia stata accertata e documentata dagli organi della procedura l’insussistenza di beni da assoggettare all’esecuzione.Ris. 195/2008la semplice notificazione del titolo esecutivo e del precetto con esito negativo non valga ad integrare il presupposto, richiesto dall’articolo 26 del d.P.R. n. 633 del 1972, dell’avvenuta – infruttuosa – espropriazione forzata che, come già chiarito, ha inizio solo con il pignoramento.Ris. 195/2008tale momento viene ad esistenza quando il credito del cedente o prestatore del servizio non trova soddisfacimento attraverso la distribuzione delle somme ricavate dalla vendita dei Interpello 17/2020Il diritto alla variazione richiede che il credito del cedente o prestatore del servizio non abbia trovato soddisfacimento attraverso la distribuzione delle somme ricavate dalla vendita dei beni dell’esecutato, ossia sia accertata e documentata dagli organi della procedura l’insussistenza di beni da assoggettare all’esecuzione.
4. In conclusione, a fronte delle nette divergenze interpretative ed applicative tra la prassi interna italiana ed il Giudice europeo, le cui “indicazioni”, in una materia di competenza esclusiva unionale, dovrebbero essere recepite tout court, in attesa di un’auspicata riforma normativa, come suggerito nella Denuncia del 6.5.2019 dell’AIDC, si potrebbe ovviare alle evidenti asimmetrie interpretative con l’inserimento, nei contratti, di clausole risolutive espresse o di altra clausola contrattuale che permetta la risoluzione immediata del contratto a seguito di inadempimento, al fine di “ricondurre” eventuali inadempienze del debitore ai casi di cui al paragrafo 1 dell’art. 90.
Il documento di denuncia dell’AIDC ha suggerito di inserire nel comma 2 dell’art 26 DPR 633/72 il seguente testo normativo: “Se un’operazione per la quale sia stata emessa fattura, successivamente alla registrazione di cui agli articoli 23 e 24, viene meno, in tutto o in parte, per mancato pagamento in tutto o in parte del corrispettivo pattuito, il cedente del bene o prestatore del servizio ha diritto di portare in detrazione ai sensi dell’articolo 19 l’imposta corrispondente alla variazione, registrandola a norma dell’articolo 25: in presenza di elementi oggettivi che determinino l’irrecuperabilità del credito, nel momento della sua verifica; in ogni caso, per i crediti non superiori, complessivamente, ad € ____, quando sia decorso un periodo di sei mesi (soluzione temporale del resto già presente in alcuni ordinamenti europei come rilevato dalla CGUE) dalla scadenza del termine di pagamento previsto contrattualmente”.
In merito all’inserimento nei contratti di clausole risolutive espresse, sembra che tale soluzione sia fornita e suggerita dalla medesima Agenzia, la quale nella recente risposta ad Interpello n. 261/2020 che richiama Cassazione 12468/2019 (id est. Ris. 502289 del 16.12.1975, Ris. 666305 del 16.10.1990 e Ris. 85/2009), relativa a contratti ad esecuzione continuata e periodica, conclude che “…in caso di mancato pagamento, previsto come causa di risoluzione del contratto, il cedente/prestatore ha la possibilità di operare le corrispondenti variazioni in diminuzione – senza promuovere una procedura esecutiva ed attenderne l’esito – e, quindi, recuperare l’IVA relativa a tutte le forniture regolarmente adempiute e per le quali non ha ricevuto alcun pagamento”.